Relazione Gian Giacomo Pisotti – Evento 16 febbraio 2017

Gian Giacomo Pisotti

UNA BUONA LEGGE SUL FINE VITA

(relazione svolta all’incontro di presentazione del 16.2.2017)

Qualche giorno fa mi è stata rivolta una domanda, con riferimento al titolo di questo mio intervento: “Quando una legge può dirsi buona?”. Era una domanda non polemica, seria, di chi voleva capire. Effettivamente il problema esiste. In generale – lo sappiamo – qualificare una cosa come buona o cattiva implica un giudizio di valore, quindi soggettivo. Ciò vale anche per le leggi (“Questa norma del codice della strada è buona, no, è sbagliata”, ecc., e si discute).

Ma per le norme che si riferiscono a diritti fondamentali, ai diritti essenziali delle persone, il discorso è un po’ diverso. In questo campo il giudizio si può ancorare a elementi oggettivi. In questo campo una legge è buona, in uno stato laico, se, appunto, è una legge laica, che rispecchia i principi-cardine dell’ordinamento, e quindi si colloca nel quadro costituzionale ed è conforme alle regole costituzionali. Una legge è cattiva se contiene regole non laiche, se si ispira a principi di gruppi, in ipotesi a principi confessionali, magari in sé rispettabilissimi, ma che contrastano con i principi ricevuti nella Costituzione; se è una legge che riflette, quindi, i principi di una parte, la quale vuole imporli a tutti. Perché le leggi, per loro natura, hanno effetti precettivi nei confronti di tutti i cittadini.

Non varrebbe obiettare che anche i laici (usiamo questo termine) vogliono imporre a tutti dei principi che non tutti condividono. Una considerazione appare decisiva, al riguardo: i principi accolti nella nostra Costituzione in materia di diritti della persona tendono ad ampliare quei diritti, ad allargare gli ambiti di libertà; i principi confessionali, al contrario, vogliono imporre divieti, ridurre gli spazi di tutti in nome di regole che sono soltanto di un gruppo, per quanto ampio.

Per valutare le norme che oggi vengono proposte in Parlamento con riguardo ai trattamenti sanitari bisogna allora muovere dalla Costituzione, e in particolare dal suo articolo 32, che, al 2° comma, dice testualmente: Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

È un testo chiarissimo: la volontà della persona è sovrana, salvo che una legge preveda specificamente un determinato trattamento.

A questo proposito va ricordato che nell’ordinamento italiano un trattamento sanitario obbligatorio (il cosiddetto TSO) è previsto soltanto nel caso di malattia mentale che esponga a pericoli la persona ammalata e/o i terzi (vi sono poi ipotesi relative a obblighi di vaccinazioni, pediatriche e nel caso di epidemie).

La norma dell’art. 32 è di immediata applicazione alla situazione della persona attualmente cosciente, la quale può rifiutare qualsiasi tipo di cura. Anche se quella cura è indispensabile per la vita.

Esempio: mi viene diagnosticata una patologia neoplastica, mi viene detto che se non si interviene chirurgicamente io potrei morire in breve tempo; mentre se accetto l’intervento certamente, o quasi certamente, guarirò. Io ho il diritto di rifiutare. Posso rifiutare, ed è noto a tutti che non sarò portato coattivamente all’ospedale per l’operazione.

In un caso come quello dell’esempio potrebbe affermarsi che si tratti di una volontà “suicidiaria” (per usare un brutto termine del linguaggio giudiziario). Tuttavia nessuno mi può costringere a curarmi. La Costituzione, si badi, non afferma un diritto al suicidio, ma il diritto di decidere in ordine alle cure, e a rifiutarle, e ciò anche se il rifiuto può condurre alla morte.

Per contro, posso essere fermato con la forza se colto nell’atto di precipitarmi dalla finestra, o di avvelenarmi con farmaci: in questo caso opera la norma sullo stato di necessità.

Queste sono state le scelte del legislatore costituente. Se venissi curato coattivamente verrebbe commesso nei miei confronti il reato di violenza privata; nessun reato viene invece commesso se vengo trattenuto durante un tentativo di autolesionismo.

Stiamo parlando, finora, della persona cosciente, che rifiuta un trattamento.

Era la situazione di Walter Piludu.

E’ stato necessario, per dare attuazione alla volontà di Walter, un decreto di un giudice, uno dei giudici tutelari di Cagliari, perché la Asl (mi riferisco genericamente all’ente; non voglio personalizzare) aveva rifiutato di dare immediatamente corso alla volontà dell’ammalato, violando per lunghi mesi la disposizione dell’art. 32 della Costituzione.

Perché questa resistenza? Perché sono frequenti, come ha detto Giancarlo Ghirra, timidezze burocratiche, e, soggiungo, timori di interventi penali, soprattutto il timore di essere accusati di pratiche eutanasiche. Timore accentuato dal fatto che in casi come quello del nostro amico non bastava sospendere la somministrazione di un farmaco, ma era necessario spegnere delle macchine, cioè compiere una attività positiva.

Ma neppure in casi come questo si può parlare di eutanasia. La distinzione tra interruzione di un trattamento ex art. 32 della Costituzione ed eutanasia è limpida, non sono possibili confusioni. Perciò sul punto ci si deve esprimere in modo chiaro (anche perché la confusione favorisce i tentativi di strumentalizzazione). Eutanasia si ha quando viene somministrata una sostanza che interrompa la vita in un organismo che sarebbe vitale, che continuerebbe a vivere senza quella somministrazione. L’ordinamento italiano non consente, allo stato, un atto di questo tipo (lo dico senza esprimere le mie convinzioni personali sul tema, qui irrilevanti). Invece, l’interruzione del trattamento ai sensi dell’art. 32 Cost. può anche provocare la morte, ma ciò avviene perché l’organismo non era autonomamente vitale, e veniva mantenuto in vita soltanto per effetto di quel trattamento. Trattamento che la persona cosciente, come abbiamo visto, ha il diritto costituzionale di rifiutare.

Per questi dubbi, per questi timori e timidezze, nel caso di Walter è stato necessario l’intervento di un giudice, che ha pronunciato un provvedimento esemplare per linearità e chiarezza, con il quale è stata applicata la norma costituzionale dell’art. 32 (quindi non supplenza giudiziaria, non giurisprudenza creativa, ma solo corretta interpretazione della Costituzione vigente).

E’ un precedente giurisprudenziale importante, che in futuro dovrebbe evitare ulteriori interventi del giudice, almeno nel nostro ambito territoriale.

E’ necessaria una precisazione. Abbiamo detto che per le persone capaci, coscienti, la norma c’è già, ed è quella dell’art. 32 della Costituzione. Perché allora si chiede ciò che chiedeva Walter, una nuova legge (ordinaria), una buona legge?

Le legge che voleva Walter, e che noi continuiamo a chiedere, è una legge più ampia, che riguarda anche le persone non più coscienti, che avevano espresso una volontà in passato. Tale è il contenuto del disegno di legge attualmente in discussione alla Camera. Il quale però opportunamente, nel primo articolo (al 5° comma), ripete espressamente il contenuto della norma costituzionale dell’art. 32, con ciò eliminando ogni dubbio sull’immediata rilevanza della volontà dell’ammalato cosciente. Una legge con questi contenuti chiedeva Walter, di fronte alla sordità e ai rifiuti di chi avrebbe dovuto attuare la sua volontà.
Il problema delle disposizioni anticipate di trattamento (del cosiddetto testamento biologico) è, come accennato sopra, parzialmente diverso. E’ il problema della possibilità di manifestare oggi la propria volontà per l’ipotesi di una futura condizione sanitaria che comporti la perdita della coscienza.

Sul punto si ritiene che ci sia un vuoto normativo, e cioè che da solo il dettato dell’art. 32 non basti, perché non sono disciplinate le modalità formali delle disposizioni e i loro limiti.

Da oltre dieci anni a questa parte il Parlamento ha discusso una miriade di progetti di legge sul tema, senza mai arrivare alla loro approvazione.

Da alcune parti politiche contrarie è stata mossa fin dal principio un’obiezione di fondo, la seguente: oggi io non sono in grado di raffigurarmi adeguatamente quale potrebbe essere la condizione di malattia nella quale potrei venire a trovarmi, magari fra diversi anni. Ma l’obiezione può dirsi ormai superata attraverso la previsione della figura di un fiduciario, che, al momento in cui sia necessario, potrà interloquire con i medici esprimendo una mia presumibile volontà in relazione alla situazione concreta che verrà a crearsi.

Fra qualche giorno – ve lo ha detto Giancarlo – andrà probabilmente in aula alla Camera il nuovo disegno di legge di cui è relatrice la onorevole Donata Lenzi, che prevede la possibilità di dare le proprie disposizioni anticipate, per iscritto, davanti a un pubblico ufficiale o a un medico.

Due sono i punti sui quali è ancora forte il dissenso tra le forze politiche. Da parte dei gruppi che esprimono, per lo più, posizioni confessionali integraliste si vorrebbe:

1) che la volontà manifestata nelle disposizioni scritte costituisca un semplice orientamento, non vincolante per i medici;
2) che le disposizioni anticipate, e in genere la volontà, anche della persona attualmente cosciente, non possano riguardare nutrizione e idratazione artificiale, le quali, secondo quelle forze politiche, non sarebbero trattamenti sanitari ma “presidi vitali”, irrinunciabili. In questo modo si cerca surrettiziamente di disinnescare, di rendere non operativo l’art. 32, che – abbiamo visto – prevede come sovrana la volontà del cittadino circa i trattamenti sanitari.

Nel Comitato Ristretto della Commissione Affari Sociali della Camera, lo scorso dicembre, si era arrivati, grazie agli sforzi della relatrice Lenzi, a un accordo fra i gruppi sia sulla vincolatività delle disposizioni, sia sulla natura di trattamenti sanitari della nutrizione e della idratazione artificiali. Ma successivamente lo scontro si è riaperto.

Tra gli altri, la onorevole Binetti e altri hanno nuovamente affermato che il disegno di legge aprirebbe la strada a “rischi eutanasici”. Abbiamo visto che questo è un argomento specioso, falso. Il disegno di cui si chiede l’approvazione non consente l’eutanasia.

Se prevalesse la tesi di Binetti su nutrizione e idratazione artificiali si avrebbe una legge che, se fosse stata in vigore al tempo della vicenda Englaro, avrebbe impedito alla Corte d’Appello di Milano di autorizzare l’interruzione dei trattamenti. Con la conseguenza che la povera Eluana, la quale da 17 anni era in uno stato meramente vegetativo (e che veniva tenuta in quella condizione attraverso il sondino naso-gastrico e le flebo di liquidi), probabilmente si troverebbe ancora, dopo 24 anni, in quelle terribili condizioni.

Si tratterebbe, quindi, di una legge non buona, perché in contrasto con i principi di libertà in materia di cure mediche accolti nella Costituzione.

Sarebbe meglio, quindi, nessuna legge.

Sul problema delle disposizioni anticipate resterebbe allora soltanto un precedente giurisprudenziale, quello del decreto della Corte di Milano, confermato dalla Cassazione, che autorizzò la cessazione della nutrizione artificiale di Eluana Englaro, affermando il seguente principio: si può interrompere il cosiddetto sostegno vitale in una situazione di perdita totale e assolutamente irreversibile della coscienza, quando la persona abbia in precedenza espresso la volontà di non accettare quelle cure.

Ma è noto che i precedenti giurisprudenziali non vincolano gli altri giudici, avendo soltanto una funzione di orientamento. In mancanza di una legge si moltiplicherebbero le decisioni difformi, e quindi mancherebbe un minimo di certezza del diritto.

Si vedrà in aula, a Montecitorio, il 20 febbraio, quale potrà essere la sorte del disegno di legge in discussione.

L’Associazione Walter Piludu ha già svolto una sua funzione facendo pervenire alla Commissione delle proposte di emendamento.

Lavorerà ancora, negli spazi che le sono consentiti, per una buona legge.