L’intervista di Pietro Mannironi a Walter Piludu

La Nuova Sardegna, 4 gennaio 2015

Walter Piludu è un uomo che percorre il difficile sentiero del dolore con straordinaria dignità e con il coraggio di chi sente che la condivisione pubblica dei propri tormenti possa essere il viatico per un dibattito civile e vero sul delicatissimo tema del “fine vita”.

Imprigionato nel proprio corpo da quella crudele malattia che è la Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), cerca di rianimare con parole dolenti e pacate un dibattito del quale tutti sembrano avere paura.

Lui, appassionato militante del Pci e negli anni Novanta presidente della Provincia di Cagliari, è stato un berlingueriano che nel 1989 seppe dire no alla svolta della Bolognina. E alla politica, nel novembre scorso, Walter Piludu si è rivolto perché il suo destino sia elemento di riflessione e porti a un punto d’incontro tra due visioni etiche della vita e della morte. Perché sia finalmente disegnata una norma che restituisca dignità a chi soffre, consentendogli di decidere come e quando superare il confine tra la vita e la morte, tra la luce e il silenzio.

Ha scritto così una drammatica lettera ad Angelino Alfano, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Giorgia Meloni, Mario Monti, Matteo Renzi, Matteo Salvini e Niki Vendola nella speranza che «queste notazioni siano utili per tentare di trasmettere una specifica concretezza a una questione che altrimenti potrebbe essere declinata a mera questione filosofica astratta».

«Non avendo avuto in dote alcuna credenza religiosa – aveva scritto ancora Piludu – e avendo il sereno convincimento che la morte sia la fine di tutto, non prendo affatto sottogamba questo tema. Appunto perché la vita è una, unica, irripetibile esperienza, essa deve poter essere vissuta senza essere avvertita come una insopportabile prigione. C’è, insomma, un diritto inalienabile, di dignità e di libertà, che deve essere garantito ad ogni persona».

È questo il cuore vero del problema: la coniugazione di due valori fondamentali come la dignità e la libertà. Walter Piludu crede che questo sia un obiettivo possibile. Perché i diversi devono essere disponibili all’ascolto reciproco, al riconoscimento delle ragioni morali dell’altro. La premessa culturale e politica è che nessuno deve essere privato delle proprie convinzioni profonde, ma tutti devono avere il diritto a una scelta, la possibilità di seguire un percorso riconosciuto. Lo Stato laico non può quindi non ascoltare la voce della sofferenza, non può ignorare tormenti che lacerano vite al crepuscolo.

E la Chiesa, senza rinunciare ai propri principi, senza snaturare le sue architetture etiche, non può impedire che chi è laico possa scegliere sul suo fine vita. Perché la vita, pur con tutte le sue complessità e contraddizioni, non può mai diventare un inferno. Su questo tema sul quale troppo si dice troppo poco si fa, abbiamo sentito Walter Piludu. La sua è una testimonianza che merita un grandissimo rispetto.

La prima domanda non può che essere una valutazione e un giudizio sull’assordante silenzio della politica davanti alla sua dolorosa e civile “provocazione”.

«Non bisogna abbandonarsi allo sconforto. La politica è talvolta come un motore diesel, lenta a mettersi in movimento. Molto importante è la spinta dell’opinione pubblica perché la moneta buona scacci quella cattiva». Da qui discende naturalmente una seconda domanda: ma il mondo della politica ha paura di affrontare temi così delicati come quello sulla fine della vita per le sue implicazioni morali o molto più semplicemente resta indifferente perché ha smarrito il legame profondo con la collettività degli uomini e delle donne e, quindi, con le richieste di dignità nel lavoro, di giustizia sociale, di legittima aspirazione alla felicità e di libertà di scelta? Come quella di porre dei confini e dei limiti alle proprie sofferenze?

«Domanda complessa, risposta scarna e sintetica. Il tema del “governo” del fine vita è obiettivamente complesso soprattutto in una cultura, come la nostra, nella quale convivono ispirazioni ideali così diverse. La politica poi è figlia del suo tempo. E il nostro tempo non è esattamente segnato da slanci di passione e generosità sul tema dei diritti civili».

Che differenza trova tra la politica di oggi, così attenta agli indicatori economici, e quella degli anni della sua militanza quando erano centrali temi come i diritti civili e i diritti di garanzia del lavoro?

«Non tutto va visto in negativo come se fossimo, citando Orazio, lodatori del tempo passato: gli anni ’70 e ’80, meno attenti agli indicatori economici, furono gli anni in cui, ad esempio, politiche sconsiderate crearono l’enorme debito pubblico che ora ci soffoca».

Pensa che la crisi non sia solo economica, ma anche di valori umani e ideali?

«Certamente sì».

Lei ha scritto a Papa Francesco invece le ha risposto monsignor Becciu. Cosa ha pensato, si sente deluso?

«In primo luogo ho provato gratitudine per monsignor Becciu. Poi rispondo con un antico ricordo liceale: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare».

Non le sembra che la Chiesa sui temi del fine vita resti arroccata su posizioni di intransigenza dogmatica e non sappia cogliere il cuore della disperazione e del dolore di chi vive in prima persona tragiche esperienze come la sua?

«Pare – e dico “pare” perché allora rimane difficile capire l’inerzia legislativa sul tema – che la posizione della cultura cattolica sia perlomeno approdata alla accettazione della liceità del rifiuto dell’accanimento terapeutico. Io sostengo che questa fattispecie sia distinta, ma non distante dall’eutanasia perché presupposto decisivo e comune è il grande principio di libertà dell’autodeterminazione dell’individuo».

Quanto la posizione della Chiesa, compassionevole nelle parole, ma inflessibile nei principi, pensa condizioni il mondo della politica così riluttante ad affrontare temi come quello che tormenta uomini e donne come lei?

«Quanto la Chiesa influenzi la politica è cosa nota. La cultura laica – accenno solo al tema che sarebbe troppo lungo da affrontare in questo contesto – è sempre stata, con l’eccezione di brevi e circoscritti periodi, piuttosto gracile nel nostro paese. Io ho vissuto, da giovane militante e dirigente dell’allora Pci, gli anni ’70, nei quali tra l’altro vennero affermate le leggi sul divorzio e l’aborto legale: nei referendum vittoriosi, il Pci seppe accompagnare la difesa ferma di quelle leggi, messe sotto attacco dalla Chiesa e dalla destra, ad un atteggiamento di ascolto e dialogo con la Chiesa. Rimpiango quella capacità politica».

Lei dice, e a ragione, che la cultura cristiana e la cultura laica hanno un’evidente formidabile punto di incontro nel valore della vita umana. Ma allora perché, almeno da una parte, non si fa quel passo che potrebbe conciliare differenti, ma simili, sentimenti di umanità, di rispetto e di comprensione?

«Ho il timore che la mancanza di una coraggiosa e convinta iniziativa della cultura laica in questa materia scoraggi la riflessione, impegnativa, ma necessaria della cultura cattolica sui suoi aspetti, a mio giudizio, contraddittori. Per rispetto genuino che, da non credente, ho verso la Chiesa, spero che la Chiesa sappia superare le posizioni assunte nella vicenda Englaro o in quella, di due mesi fa, di Brittany Maynard».

Dalla risposta di monsignor Becciu alla sua lettera a Papa Francesco non percepisce che i suoi toni civili e pacati, così diversi da quelli di altre aree del mondo laico, siano stati fraintesi?

Che cioè la sua dignità, la sua intelligenza e la sua forza siano percepiti in modo distorto e oscurino la legittimità delle sue domande alle quali, nella sostanza, tutti sfuggono?

«Ho, netto, il senso del limite della mia iniziativa. È abbastanza evidente che si cerchi di ovattare la battaglia di libertà che ho tentato di impostare e di deviarla verso approdi compassionevoli. Quella che ho proposto è una battaglia che riguarda tutti, credenti e non credenti, e che da solo, naturalmente, non potrò portare avanti. Ma ho fiducia negli uomini di buona volontà, credo che alla fine le istanze di dignità e le idee di libertà avranno la meglio».