La legge sul biotestamento supera il vaglio della Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 144, depositata il 13 giugno scorso, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale che il Tribunale di Pavia aveva sollevato all’indomani dell’entrata in vigore della legge sul Consenso Informato e le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT).

Il Tribunale aveva ritenuto che l’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017 n. 219*, entrasse in conflitto con alcune norme della Costituzione (artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.).

Si tratta di disposizioni che riguardano gli incapaci e, più precisamente, di quelle che, secondo l’interpretazione del giudice a quo, attribuirebbero all’amministratore di sostegno – con poteri di “rappresentanza esclusiva” del beneficiario in materia di salute – la possibilità di rifiutare, senza una preventiva autorizzazione del Giudice Tutelare, perfino le cure salvavita.

In effetti, stando alla lettera della legge, la disciplina dettata dall’art. 3 prevede l’intervento giudiziale solo nel caso di conflitto tra il rappresentante legale, che rifiuti le cure proposte, e il medico che le reputi appropriate e necessarie. Non anche qualora tra i soggetti che interagiscono nella relazione di cura dell’incapace vi sia accordo. Da qui la preoccupazione del giudice per l’ipotesi in cui medico e amministratore di sostegno reputino entrambi opportuno sospendere trattamenti vitali quali la nutrizione e l’idratazione artificiali (NIA), in assenza di DAT che così dispongano.

Il problema – affrontato nell’ambito del procedimento che riguardava un paziente in stato vegetativo, portatore di PEG e incapace di intendere e di volere fin dalla nascita – è serio e complesso. Attiene difatti all’esercizio di diritti personalissimi, laddove siano altri a dover decidere “per” l’incapace senza poter ricorrere all’ausilio di disposizioni anticipate dall’interessato.

La nostra giurisprudenza, nel caso Englaro, ha da tempo stabilito che il rappresentante può esprimere la volontà di interruzione della NIA di paziente in stato vegetativo purché si tratti di una decisione presa “con” l’incapace, ossia in conformità a quella che sarebbe stata la scelta autodeterminata del paziente, per quanto assunta in base ad una volontà ricostruita ex post sulla scorta degli stili di vita e di quanto precedentemente dichiarato dallo stesso.

In effetti, con riguardo alle differenti situazioni che possono riguardare gli incapaci in ambito sanitario, la legge italiana mostra alcune carenze: non sono previste misure di garanzia di tipo procedurale (quali, ad esempio, il coinvolgimento di una equipe medica e di comitati etici composti da diverse figure professionali), né criteri di decisione che assicurino il rispetto dei diritti fondamentali dei soggetti più fragili e vulnerabili.

Le DAT, che pure consentono di ricondurre le decisioni di cura nel più confortante alveo dell’autodeterminazione dell’interessato (successivamente divenuto incapace), possono effettivamente mancare, sia perché il paziente potrebbe non aver mai espresso le proprie volontà nelle forme previste dalla legge, sia perché potrebbe non essere mai stato nelle condizioni di farlo, come nel caso da cui ha preso le mosse il Tribunale di Pavia.

A quel punto le decisioni, già di per sé particolarmente impegnative e delicate, in quanto relative a scelte irreversibili come l’interruzione di trattamenti sanitari di sostegno vitale, diventano ulteriormente difficili e problematiche. Ed è proprio riferendosi a fattispecie di questo tipo che il giudice rimettente ha avvertito il pericolo «di un potere di natura potenzialmente incondizionata e assoluta attinente la vita e la morte» del beneficiario.

La Corte Costituzionale ha tuttavia osservato che, seppur dotato della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, l’amministratore di sostegno non è perciò stesso munito di poteri illimitati. Difatti, secondo la disciplina generale dell’istituto, è il Giudice Tutelare a modellarne compiti e poteri in funzione delle concrete esigenze del beneficiario, modificandoli via via, ove occorra, in ragione delle sopravvenute condizioni dell’amministrato.

Contrariamente a quanto paventato dal Tribunale di Pavia, il rappresentante non dispone di un potere di vita e di morte sull’incapace. E le disposizioni della legge n. 219/2017 che gli affidando il compito di prestare o rifiutare il consenso informato “per” e “con” il paziente non violano i parametri costituzionali.

Se ne trae conferma dalla disciplina generale dell’amministrazione di sostegno secondo la quale è il Giudice Tutelare a definire compiti e poteri del rappresentante. Regola che si applica anche all’eventualità del rifiuto di trattamenti salvavita. Una decisione siffatta sarebbe pertanto soggetta ad autorizzazione giudiziale a prescindere dalla sussistenza di un conflitto tra amministratore di sostegno e medico. Essa potrebbe giustificarsi solo in ragione della miglior tutela degli interessi dell’incapace, tenuto conto delle sue concrete condizioni di salute e soprattutto – ove possibile conoscerle o ricostruirle – delle sue volontà in ordine all’esercizio dei diritti personalissimi alla vita e alla salute.

Fugati i dubbi sollevati dal Tribunale di Pavia, resta tuttavia irrisolta la questione cruciale dell’individuazione di criteri di carattere generale sulla base dei quali il Giudice Tutelare, in assenza di DAT, dovrebbe stabilire, nelle circostanze concrete, se concedere o negare l’autorizzazione alla sospensione di trattamenti di sostegno vitale della persona incapace. Profili sui quali la legge italiana tace dando luogo a inquietanti incertezze interpretative.

Certo invece è che  – in attesa che l’istituto delle DAT, con la nomina di un fiduciario per l’attuazione delle volontà dell’autore, trovi effettiva applicazione nel nostro ordinamento – l’amministrazione di sostegno continuerà a svolgere una funzione fondamentale nella relazione di cura degli incapaci. La misura consente difatti una residua forma di “interlocuzione” del paziente con il medico, anche oltre la soglia della perdita di coscienza nella quale si trovano coloro che sopravvivono in stato vegetativo permanente.

Prof. Alessandra Pisu

Associato di diritto privato UniCa

 

*Le norme della legge n. 219/2017 impugnate nel giudizio di legittimità costituzionale prevedono:

Art. 3, comma 4°: “nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere.”

Art. 3, comma 5°: “Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.”

La sentenza della Corte Costituzionale è disponibile al seguente link:

pronuncia_144_2019 (1) su art. 3 legge 219 2017